Il cortometraggio, completamente amatoriale
e autoprodotto (e che una volta terminato sarà
gratuitamente scaricabile dal sito ufficiale:
http://www.darkresurrection.com/), fa ben sperare
e risveglia in noi il sentore di quella «forza»
andato perduto con il disastroso Revenge of
the Sith di cui abbiamo riparlato male nel post
precedente.
Il trailer di Dark Resurrection (che potete
vedere e/o scaricare sempre dal sito) ha un
che di fenomenale, anche considerando che la
postproduzione (cioè gli effetti visivi)
sono solo al 25/30%. Per quello che si vede
ora gli effetti speciali e i suoni (che come
si sa fanno la gran parte di Star Wars) sono
già eccellenti, cosa che in italia si
può considerare un vero e proprio miracolo.
Nel sito si possono vedere ulteriori immagini
rispetto a quelle che abbiamo messo qui, e scoprire
i vari segreti che stanno dietro a questa grande
e coraggiosa operazione.
In un certo senso Dark Resurrection si accosta
all’altro grande spinoff amatoriale ambientato
nell’universo di Guerre Stellari ma realizzato
in america: Star Wars Revelations (liberamente
scaricabile a questo indirizzo http://www.panicstruckpro.com/revelations/).
Il corto Revelations sorprese sia per la storia
interessante, che per degli effetti speciali
degni della produzione della Lucasfilm, facendoci
sorgere più di un dubbio sul dove Lucas
avesse speso i 100 milioni di dollari stanziati
per Revenge of the Sith. Il grosso problema
di Revelations (problema peraltro comprensibile)
è rappresentato da un casting non proprio
felice a livello di presenza scenica (la “cattiva”
è veramente improponibile…) e da
un livello di recitazione non certo eccelso.
Su quest’ultimo aspetto Dark Resurrection
sembra ben più promettente. Da quanto
si può vedere nel trailer i personaggi
sembrano stare nella parte e la presenza scenica
funziona abbastanza bene.
Per quanto riguarda la recitazione staremo a
vedere. Speriamo anche che la storia e le scelte
narrative siano altrettanto coraggiose come
quellevisive, e rischino di più rispetto
alle banalità infantili dell'ultimo Lucas.
Soprattutto speriamo in una caratterizzazione
dei personaggi non tagliata con l'accetta e
in un'atmosfera veramente dark, atmosfera doive
si consumò il fallimento di Revenge of
the sith (altro che Dark come promesso da Lucas,
sembrava MTV). Comunque sia sembra proprio che
la forza scorra potente in questa produzione.
Quindi complimenti a Licata e Bigazzi!
Ovviamente aspettiamo la versione finale per
giudicare oggettivamente il lavoro italiano,
ma fin da ora Dark Resurrection permette anche
alcune riflessioni sullo stato del cinema italiano.
In un panorama cinematografico italiano sempre
più deprimente, sempre più stretto
tra nepotismo di vario genere, provincialismo
generale, film che riducono verso il basso il
gap rispetto alle produzioni televisive di scarso
livello (il contrario di ciò che succede
in america dove, come già detto più
volte, serie televisive come Battlestar Galactica
o anche molti episodi della serie Masters of
Horror si avvicinano e in molti casi superano
produzioni destinate al grande schermo) vedere
che la passione permette di produrre cose interessanti
e con effetti speciali di ottimo livello fa
veramente piacere e in un certo senso esalta.
Allo stesso tempo, però, si prova un
senso di depressione. Questo cortometraggio,
infatti, mostra, se ce ne fosse ancora bisogno,
che il problema del cinema italiano non sono
i soldi o il cinema americano che cannibalizza,
il problema è che in Italia i cosiddetti
registi di successo (che poi sono i pochi che
si possono permettere di ottenere dei finanziamenti
per fare i film molto spesso mediocri e inutili
che alla fine realizzano) non hanno idee e soprattutto
la voglia di rischiare qualcosa, magari aggiornandosi.
insomma il problema è anche e soprattutto
culturale.
Personalmente la vediamo la cosa alla Onofrio
del Grillo: se ai (pseudo)cineasti italiani
gli togli «quel po’ di pecore con
l’acquedotto, un ragazzetto mezzo nudo
col ciufolo in bocca o du’ bovi all’ora
del tramonto essi so’ belli che finiti.
E poi se la prendono con la mancanza di fondi
e con il cinema americano fagocitante. La verità
è che gli italiani (nel 90% dei casi)
nun ch’hanno niente da di’».
Talvolta infatti i costi elevati di molti film
americani non sono stanziati solo perchè
ci sono, ma per supportare delle scelte registiche
particolari e coraggiose.
Un film come Panic Room è costato molto
perchè si sono fatte scelte estetiche
innovative e rischiose, atte a supportare le
idee geniali di Fincher. In Italia, data l'assoluta
irrilevanza delle innovazioni estetiche e di
linguaggio prodotte negli ultimi 30 anni di
produzione cinematografica, non si riesce a
vedere la ragione per la quale bisognerebbe
stanziare i soldi per produrre idiozie estetiche
(e sottolineiamo estetiche, che non vuol dire
contenutistiche, anche se poi di fatto anche
contenutisticamente non siamo messi troppo bene)
come i film di Comencini, Benigni, Verdone,
Muccino, Moretti e tutta la cricca piccolo borghese
che a livello di linguaggio cinematografico
non ha prodotto nulla che valga la pena considerare,
se non, quando va bene, con non più che
la mera sufficienza.
D'altronde un regista che certo non si può
considerare un sacerdote degli effetti speciali
come Aleksandr Sokurov ha realizzato il film
esteticamente più importante degli ultimi
50 anni (Arca Russa) e una trilogia/tragedia
sul potere (Moloch, Taurus, Il Sole) che, oltre
a mostrare una dimestichezza fuori dal comune
nel cambiare continuamente registro stilistico
da un film all'altro, ha offerto una delle più
lucide analisi del secolo scorso. Perchè?
Perchè ha delle idee, e cinematograficamente
avere delle idee ( o peggio "cose da dire")
per noi vuol dire non esporle attraverso il
mezzo delle immagini (attraverso le parole che
accompagnano le immagini), ma con le immagini
stesse, il montaggio, il(non)montaggio, insomma
attraverso il linguaggio cinematografico senza
necessariamente ricorrere alle parole. Se non
è così, tanto vale che si scriva
un libro e/o un pamphlet e ce lo si faccia leggere.
Si veda lo anche lo straordinario cinema di
Ki-Duk.
In questo senso Sokurov ci ha fatto riflettere
sulla storia del novecento non ripetendo a pappardella
la lezione dei manuali mettendola in bocca agli
attori, cioè utilizzando il cinema come
megafono e mero contenitore; lo ha fatto cinematograficamente
con le immagini, l'uso dei colori, l'utilizzo
di scene e dello scripting. Se le idee ci sono,
la realizzazione deve essere rapportata a tali
idee, non le idee ad una forma cinematografica
fatta con lo stampino e adatta a tutte le situazioni.
Significa cioè rischiare di evolvere
la propria tecnica, adattarla al soggetto, non
il contrario. Per fare tutto ciò c'è
bisogno di registi che, senza rinunciare per
questo alla propria identità autoriale,
abbiano anche l'umiltà di mettersi in
gioco e in ascolto delle innovazioni tecnologiche
per così avere a disposizione quello
spettro di possibilità che solo può
permettere di realizzare in modo adeguato la
molteplicità delle idee che sopraggiungono.
Ma ripetiamo il problema è forse culturale,
se non di mancanza di cultura. Sokurov, un regista
profondamente russo (si veda la riflessione
sullo slavofilismo in Arca Russa, anche se aperta
al confronto con l'occidentalismo), ha deciso
di parlare di Hitler o Hirohito, cioè
non è rimasto chiuso nel proprio orticello,
ma ha deciso di parlare al mondo (“l’unica
legge dell’evoluzione è la pace”),
non solo alla Russia o peggio ad una piccola
regione russa. Perchè è anche
questo il problema del cinema italiano, il provincialismo,
il voler parlare sempre e comunque agli italiani
degli italiani, della loro più o meno
miserevole quotidianità, dei loro problemi,
dei loro tic, dei loro divertimenti ecc.
E se nel neorealismo e della scuola italiana
degli anni cinquanta ciò acquistava una
dimensione universale di incalcolabile importanza,
nella nostra contemporaneità acquisisce
sempre di più una dimensione tristemente
provinciale, specchio forse di coloro che realizzano
i film. Per carità non è che tali
film non siano necessari, ma non possono essere
sempre e solo questi i film prodotti in Italia.
Diamine Philip K. Dick, Greg Egan, Philip Pulmann,
Andy McNab, Neil Geiman, Daniel Keyes, Eliette
Abécassis o anche Alice Sebold (per citarne
alcuni a caso) non sono mica proprietà
intellettuale dei loro rispettivi paesi! Ed
è forse, chi lo può mai sapere,
anche per queste ragioni che ogni anno le lobbie
di potere del cinema italiano riproducono continuamente
lo stesso copione di anno in anno da diversi
anni (Vacanze varie, Aldo, Giovanni e non ricordiamo
l'altro, Verdone, Benigni, Pieracconi.....e
basta!!): perché non c’hanno niente
da dire. Un nulla peraltro confezionato in una
forma totalmente insignificante.
Molte volte si critica il cinema d’azione
o cosiddetto commerciale americano, ma noi andremmo
in pellegrinaggio a Lourdes se dovesse spuntare
anche uno solo dei registi per esempio della
Propaganda Film, magari non per forza David
Fincher (non chiediamo così tanto) ma
anche solo un Michael Bay ( si proprio lui!
Il regista di Armageddon, Pearl Harbor e Bad
Boys … film certo contenutisticamente
e ideologicamente orripilanti, ma realizzati
attraverso uno dei talenti visivi più
incredibili degli ultimi anni) sarebbe un miracolo.
Almeno Bay il nulla (per non usare termini volgari)
lo confeziona bene. In Italia si è invece
ancora convinti che ciò che fa un film
sia il contenuto, noi ovviamente siamo dell’opinione
opposta e celebriamo il cinema come arte del
visibile (e dell’invisibile), riteniamo
cioè che la tecnica (che certo non abbonda
nei cosiddetti grandi registi italiani) sia
fondamentale perché solo padroneggiando
la tecnica si può rendere visivamente
un determinato contenuto (e non narrativamente,
cioè dicendolo attraverso le frasi della
sceneggiatura – problema che per esempio
affligge anche il pessimo “V per Vendetta”
di James McTeigue: tante parole belle ma soltanto
dette e spesso fuori luogo, poche immagini degne).
Potremmo sembrare radicalmente provocatori,
ma quando si tratta di cinema tra un contenuto
esteticamente insignificante e il nulla esteticamente
rilevante preferiamo di gran lunga il secondo
( e chi ci conosce sa che qui il gioco della
decostruzione non c'entra assolutanente nulla)
Tutto ciò per dire che Dark Resurrection
pare veramente "una nuova speranza"
e secondo noi ha anche il non piccolo merito
di suonare la carica, dicendo a tutti i dorminenti
del cinema italiano e soprattutto a coloro che
hanno intenzione di fare cinema, ma sono frustrati
dalla logica pseudomafiosa e parentale che governa
grane parte delle produzioni ufficiali, che,
grazie alla diffusione di tecnologie informatiche
sempre più avanzate e sempre più
user friendly unite ad una buona dose di passione
e di idee, un altro modo di fare cinema in Italia
è possibile.
Svegliatevi! E chissà se, ma noi ce lo
auguriamo, questa oscura resurrezione non rappresenti
proprio il primo passo verso una luminosa resurrezione
del cinematografia italiana.
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